Domani facciamo il Futuro

Quando prende la penna non smette di tremare, è ancora tanto provato dai ricordi, dalla mancanza della sua famiglia. Per venire qui suo padre ha venduto non so quanti ettari di terreno e di alberi, è una zona rigogliosa quella, tanto legname e non troppe piogge nella stagione dei monsoni. Sua sorella e i suoi due fratelli minori invece si sa, rimarranno ad aiutare i genitori. Ha attraversato mezzo mondo via mare ma per lui è come se fosse stato a piedi. Lui dice che ha sentito raccontare di suoi compagni morti, lungo il viaggio, ma non dice di averli visti. Non lo dirà mai. Insomma quando afferra la penna per scrivere le parole che la “maestra” (qui nessuno ti chiama professoressa o insegnante, maestra è segno di rispetto) scaccia tutti quei pensieri. Alla sera in un momento di calma lontano dal frastuono di quel casermone di stanze dove trovare un po’ di solitudine è impossibile scrive, pensa alla sua ragazza, quella che avrebbe visto bene vestita a festa durante uno scalmanato capodanno, telefona. Qualche volta. Accende skype e prova a vedere se lei è in linea. Ma forse no, si è addormentata dopo aver lavorato tutto il pomeriggio con sua madre in casa. tante donne sono sole a tirare avanti. Ogni tanto i mariti le chiamano e le dicono che arriveranno i soldi con il corriere o che hanno finalmente messo da parte i soldi per il biglietto, così che li raggiungano al volo per qualche settimana. Dunque lei mette l’abito bello in filigrana d’oro e si copre il capo, sale su un aereo a sfidare le turbolenze della stagione, per la prima volta in vita sua.

 Scrive e non pensa. Domani ha la visita per verificare i suoi 18 anni biologici, perché altrimenti dovrà lasciare il centro. Lui nemmeno capisce quel che significa. “Che hai Imran?” Domanda la Maestra. “Hai capito che ci vuole l’ausiliare “essere” con il verbo cadere?”. Imran la guarda e pensa se la vita di lei è uguale alla sua. E’ giovane, così sembra, ha una pelle chiara, chissà come fa quando il sole è alto e forte a Dakka una così fragile all’apparenza. Ma non deve andare a Dakka, lei non sa tante cose. Non ha visto le onde, non ha visto l’acqua così da vicino e non ha visto la nostalgia da toccarla con mano. “Qui è tutto diverso” pensa Imran “quando parlano non li capisco” dice poi ad alta voce. Il suo compagno ha scritto una pagina intera di frasi. A Imran invece piacciono i giochi, quando tutta la sua mente è occupata solo con le parole italiane e scherza con gli amici a fare il voce di un italiano, come dice lui. Ripete con precisione gesti e anche un po’ il dialetto romanesco. Però sa anche distinguere il siciliano dell’operatore ultimo arrivato. Guarda il cellulare e vede se ci sono sms. Il cellulare per questi ragazzi è come una ciambella di salvataggio ma anche messaggero di cose brutte. Una volta lo chiama la questura e gli dice che deve tornare per certi documenti che mancano. Un’altra poi sua mamma chiama fra le lacrime e dice che sua nonna è morta. Imran lo sa, questa è la vita da soli qui, lontano da casa. 

L’insegnante poi cambia tono e Imran è praticamente costretto ad ascoltarla, il 22 ci saranno gli esami dice con aria impostata come seria. Ci saranno i professori della “scuola grande” e dovrete scrivere e poi parlare con loro all’orale. Imran non si preoccupa troppo perché a parlare se la cava molto bene, ha scovato un modo per adottare strategie perfette quando non sa una parola. Ci gira intorno. Finché qualcuno più furbo di lui fa come il tentativo di mettergli le spalle al muro, allora sono guai.

Ma Imran sa che in Italia non importa parlare bene, nessuno lo pretende da lui e da quelli come lui.

I suoi amici più grandi, quelli che hanno “fatto il compleanno”, ovvero la maggiore età ora sono a vendere merce, vestiti, ombrelli, con le parole che devono sapere. Nessuno gli chiederà tanto di più, al massimo verificheranno se sa far di conto e di mercanteggiare no quello gli verrà spontaneo, con qualche donnone in vena di risparmio.

Imran ha occhi profondi e nerissimi, a volte capisce che la Maestra quando li guarda vede oltre, ma non sa fino a dove, allora tiene le mani nelle tasche del giubbetto e il berretto calato fino alle sopracciglia. Alcuni a volte scendono i compagni con gli infradito e l’abito tradizionale bengali, una sorta di pantalone che si avvita sotto l’ombelico.

La prima volta la maestra è arrivata per la prima lezione con un altro ragazzo, come lui, ma un po’ più grande, Imran ricorda che parlava con la Maestra un italiano proprio uguale a quello di lei. E ne era rimasto colpito. Le parole difficili quest’altro ragazzo sapeva dirle anche in Bengali, così c’è voluto poco per capire che erano connazionali. Imran così aveva cominciato a studiare sodo per diventare come lui.

Riprende in mano la penna toglie il cappuccio mordicchiato e si diverte a fare un cruciverba insieme agli altri, vince chi finisce primo. Alla Maestra piace giocare, strano per essere una Maestra pensano tutti.

“Ecco finito”, la soluzione è “La capitale d’Italia è Roma”. Consegna il foglio alla maestra, lei gli sorride, “Bravi, avete finito prestissimo!”. Domani facciamo il futuro, non rimanete a dormire troppo a lungo, non fate tardi stasera!

E a Imran come una saetta gli balena qualcosa nel cuore, come se fosse una formula magica: il futuro.

Poi questa saetta fa esattamente come le stelle filanti, gira, gira, saltella e pian piano si spegne.

Il futuro… quale futuro? Si domanda Imran stringendosi nelle spalle.

Ma riprende la penna, chiude il quaderno, li mette in tasca e pensa già alla lezione di domani.  


Monica Febbo fa parte del gruppo Riconoscimento della professionalità degli insegnanti di Italiano

Vive e Lavora a Roma con i migranti