La mia classe - di Monica Febbo

foto di Davide Zurolo

foto di Davide Zurolo

A proposito diLa mia classeREGIA: Daniele Gaglianone SCENEGGIATURA: Gino Clemente, Daniele Gaglianone, Claudia Russo. Con Valerio Mastandrea e una classe di stranieri che mettono in scena se stessi

Una classe, si sa, è un organismo unico e irripetibile. Un microcosmo fatto di pulsioni e di un respiro suo, una pulsazione variabile e uno sguardo peculiare sul mondo. Non c’è elemento che la costituisce che in tutto ciò non contribuisca attivamente, anche in silenzio, anche restando a guardare.

Se poi la classe è un mosaico di culture immaginiamo gli esiti di questa dimensione

 

in continua espansione con scatti duri e momenti di contrazione, come farebbe la risacca di un’onda marina. Si fa marea, quasi oceano e si calma, come un lago al tramonto, uno specchio su cui riflettersi, anche a lungo, con la faccia che sfiora le gocce dell’acqua salmastra.

Una classe è qualcosa che si riunisce per caso e si ritrova compatta, come una famiglia per forza all’inizio e sicura man mano che ci si conosce.

Lo spettatore attraverso questo film ha delle buone possibilità di entrare a farne parte, o spiare dallo spiraglio della porta e dell’obiettivo del regista. In un'abile miscela di realtà e finzione, il permesso di soggiorno negato ricorda che c’è poco da romanzare qui. Niente più vero del vero in questi casi. Come quando Shady viene svegliato da due poliziotti che gli chiedono i documenti.

Clandestina finisce per essere proprio la vita. Vita che però non nega a nessuno un atto di solidarietà, un sorriso o una pacca sulla spalla. O l’aperitivo alla sera tutti insieme, dopo la lezione.

La lezione, in questa fase non è possibile dimenticare la vita appunto. E allora i temi sono il lavoro, i diritti e i doveri, intesi come priorità morale personale di un’etica soggettiva che poi è quella di non fare male a nessuno, “come posso”. Ci sono anche le lacrime, asciugate con dignità, che sgorgano, come fa un fiore quando sboccia: non c’è pietismo o autocommiserazione. E’ tutto vero, anche nella finzione, se tale è.

Gaglianone se vogliamo ha fatto due film. Il primo che è quello visibile a tutti, anche chi degli stranieri non sa nulla e si nasconde dietro un concetto di società superato, inattuale, fatto di nazionalismo tattile. Il secondo parla di una marginalità più perniciosa, anch’essa silente, ma forse anche più dell’altra. Quella di chi con volontà e convinzione si pone in rapporto diretto e dialettico con quel mondo altro e getta per forza di cose un ponte. Fatto di parole.

La figura del professore è delineata a brevi tratti. Non è la perfezione l’accademia a renderlo diverso da chi sta seduto sui banchi. Forse nemmeno i diritti che lo tutelano solo in apparenza. Una storia che ha l’odore acre del precariato, dell’invisibile e irrisolto, della forza di quel che si fa e della debolezza di quel che il mondo attorno a fatica e un po’ con scherno riconosce.

E’ come quel cane bagnato che ti segue alla fine di una giornata di lavoro, al buio per la strada, dopo una carezza data quasi per sbaglio. Non puoi chiuderlo dietro un cancello e lasciarlo solo.

Monica Febbo