Nell'istante felice del qui ed ora

 

di Monica Febbo

 

Da dove si parte?

Dal 2000 anzi direi dal 1999 proprio sul finire di quell’anno, ho iniziato a insegnare italiano come LS… Nell’IIC di Varsavia. No, meglio, per l’esattezza all’università di Varsavia, come lettore di italiano; non mi resi nemmeno conto dell’opportunità che mi venne data. Allora era molto più facile essere inquadrati dal MAE, da ruoli previsti in una normativa di lavoro molto meno multiforme di quella attuale… Insomma anche i miei colleghi erano arrivati pioneristicamente. Mandati da Roma erano solamente (a ben guardare) gli annuali lettori ministeriali.
Mi ricordo di quando vidi per la prima volta un professore (di francese ndr) che faceva l’esame CILS con me, ovvero la certificazione di Siena, e mi mostrò il passaporto diplomatico… con mia somma sorpresa! Noi, che spesso eravamo come liberi professionisti, pagati a onorario. Credo sia, anzi certamente, tuttora così.
Davvero ho imparato moltissimo da quegli anni.. umanamente e professionalmente: il popolo polacco all’inizio è difficile da capire, ma poi trovi e loro stessi trovano molti punti di contatto con la cultura italiana.
E mi sono resa conto che l’italianistica è un piccolo club dove si conoscono tutti; ho scoperto che il direttore della facoltà molto dopo essere amico del mio relatore qui a Roma… che peraltro non sentivo da tantissimo tempo!

 

Come si parte?

Ci vuole coraggio e incoscienza, ma quelli sono i veri motori del mondo, si sa Ma davvero sono tesori inestimabili. Per me sono stati anni di formazione anche se si trattava di uno studente modello quello con cui avevo a che fare. Universitari, persone che stavano spesso alla seconda laurea, una dimensione ovattata; in Polonia l’università gode fra l’opinione pubblica, a differenza che da noi, grande prestigio. L’istruzione viene vissuta come un vero valore… Per i varsaviani è un’ambizione che coinvolge a tutto tondo la formazione della persona e la investe di una dignità che nessuno può permettersi in qualche modo d’alienare.
Comunque quel che mi ricordo è stato davvero il percorso che feci per capire, soprattutto in Istituto, come didattizzare e come portare gli studenti a domandare a se stessi e soprattutto a indovinare. Quello per me fu come l’uovo di colombo.
All’Università era tutto più facile, eravamo quasi coetanei, insomma, io un paio di anni più di quei ragazzi del quarto e secondo anno.. E’ stato bellissimo e devo ringraziarli ancora oggi perché i veri professori per me erano loro, mi conducevano a fare quello che era davvero secondo il loro bisogno. Poi io ero, incarnavo, la parte pratica, per il resto c’erano i docenti madrelingua a fare la parte peggiore…
Ci siamo divertiti molto e devo dire che il merito nostro è stato quello di portare un’aria di nuovo, perché si era molto tradizionali nell’insegnare una lingua… come infondo da noi qualche anno fa con l’inglese… chi non lo ricorda?! Con molti di questi ex studenti sono ancora in contatto…

 

Perché si parte?

La domanda dovrebbe essere perché si parte e perché si torna, visto che dopo sette anni ho deciso di fare il percorso inverso (come dice una mia amica, anzi una mia studentessa, un biglietto di solo ritorno) … Si parte per esplorare quello che è al di fuori di noi, si torna per trovare quello che abbiamo dentro, dopo aver tanto visto, assorbito, reinterpretato alla luce di coordinate inverse.. Poi c’era il fatto che a tutti gli effetti i miei colleghi ed io eravamo precari a cui veniva rinnovato annualmente il contratto e temevo di non poter avere lo stesso inquadramento e incarico ogni anno. Poi sono convinta che i cicli devono chiudersi, se ne aprono altri se permettiamo ai primi di compiere il loro percorso completo. Però prima che sia compiuto del tutto bisogna prendere una decisione importante. Ovvero, voltar pagina.

Varsavia, vista dalla mia finestra (n.d.r.)

A cosa si giunge?

Certamente a una consapevolezza che non moltissime persone come direbbe Pavese hanno la possibilità di ottenere. Sei un’anima divisa in due ma allo stesso modo un’unità omogenea, dove tutto assume coerenza e si integra con il resto di te e di quel che ti circonda. Io credo che nessuno possa veramente capire che significa sentirsi straniero se non lo è stato lui stesso per primo almeno per qualche anno, una parentesi della sua vita che non può contare su ritmi e calendari simili a seconda dei luoghi. A questo ci si deve abituare. I silenzi, mi ricordo il mio lungo silenzio prima di capire qualche parola in polacco… I silenzi di una nevicata notturna. E dell’inverno che è buio presto. Ecco quello ha un prezzo emotivo altissimo, fatto di una valuta con cambio non sempre sfavorevole, poi quei suoni entrano a far parte di te e ci rimangono per tutta l’esistenza. Sono processi del sentire che ti fanno capire davvero cosa significa essere straniero, come dicevo.
E’ un’identificazione necessaria che va fatta, l’empatia da sola non basta.

 

Tra il passato e il presente?

C’è una forte voglia di riscatto, anzi, passatemi il termine, di Riconoscimento! Per quello, anche per quello sono tornata! Ma certo che non sapevo che avrebbe avuto queste fattezze.. Si tratta di un progetto che con alcuni colleghi docenti stiamo portando avanti da un annetto. Se penso alla mia carriera è la prima cosa che adesso mi viene in mente. Ci sono tante sfaccettature, e tutti questi sottili fili del vissuto li tiene insieme questo profondo desiderio, che la nostra professione possa uscire da una sorta di anonimato che è invece nemmeno tanto paradossalmente il frutto di qualifiche e sacrifici. Non di solo studio. Non possiamo essere paragonati ai docenti di Letteratura e di storia…, siamo nati un po’ per caso, con una formazione che è venuta delineandosi come la si imposta ora solo negli ultimi quindici anni… senza nulla togliere alla produzione editoriale di allora, certo però va detto, era scarna. Ora ho sempre più l’impressione che i testi siano studiati talmente bene che il docente possa anche mettersi da parte e fare tutto con calma, prima era tutto un lavorare di artigianato, collage.. articoli di giornale ritagli, tutto faceva lezione…

 

Sulle tutele e i diritti

Dicevo, c’è una forte domanda di insegnanti di italiano come seconda lingua. Una volta tornata ho fondato con altri colleghi un’associazione per dare il mio contributo ai primissimi corsi che si facevano destinati proprio ai migranti. Credo fosse cinque anni fa… E lo facevamo a titolo totalmente gratuito. Confesso che ora non sono certa che lo rifarei, l’accordo di integrazione ha fatto muovere un sacco di ingranaggi, non di meno interessi; ora il volontariato è diventato un bacino da cui attingere e prendere a piene mani risorse umane di inestimabile valore, quando ovviamente parliamo di personale qualificato, ma io lo chiamerei senza mezze parole, sfruttamento… come abbiamo visto sta succedendo un po’ ovunque… Poi di recente sono balzati alla cronaca episodi davvero discutibili come quello delle scuole di Brescia e Bologna dove sono stati reclutati insegnanti in pensione per insegnare agli stranieri. Noi sappiamo che così non si va da nessuna parte; è chiaro che ci sta molto a cuore il nostro destino, ma anche quello dei ragazzi che devono poi affrontare la vita con la lingua che hanno appreso.. Ci rendiamo conto che le difficoltà sono molteplici. Dunque non ci illudiamo e sappiamo che la strada che ci aspetta davvero è in salita.
Quando ho visto il film “La mia classe” ho pensato esattamente a questo. E’ la storia di due invisibilità, perché l’opinione pubblica ha un’idea molto vaga di cosa sia una lezione di italiano (non che debba saperlo a tutti i costi…), o di come si apprenda una lingua, e di quel patrimonio di tale ricchezza umana e culturale è quello che sta “fra i banchi”.
Stiamo lottando per far capire che tutto questo c’è ed esiste. E vorrebbe continuare a farlo con dignità e tutele.
 

Tra il dire e il fare

E’ come se ci fossero due poli o i due fuochi dell’ellisse e tra questi mi sono mossa, ho conosciuto una varietà di tipologie di studenti (universitari, erasmus, migranti, artisti…) fino ad oggi e questo è ciò che più mi affascina di questo lavoro.
In una fase di approfondimento teorico e pratico ho creduto che quella sarebbe stata la strada maestra da battere, e invece mi rendo sempre più conto che il cardine attorno a cui tutto si muove veramente è l’empatia, tattile, sensoriale, globale ed empirica a volte, che ti lega a chi stai davanti, e ci tengo a dirlo, al di fuori di ogni retorica, chi fa demagogia della razza è sostenere il falso al limite criminale. Perché la lingua è l’unica palese e insieme apparente discriminante che ci tiene lontani, per una parentesi brevissima peraltro.
Non c’è cultura tanto distante, forma degli occhi diversa dalla mia che non guardassero lo stesso obiettivo, colore della pelle e credo che non pensassero alla fine come me dopo qualche lezione… Non perché la lingua da apprendere o acquisita abbia chissà quale potere di omologazione, sia chiaro nessuno la intende come una forma di colonizzazione, ma per il semplice fatto che si arriva a un comune sentire che davvero ci dice di poter appartenere tutti e indistintamente al medesimo mondo, magnifico cosmo costellato di galassie emotive.
Che è quello del qui ed ora. Ecco in quell’istante avviene un vero miracolo ai miei occhi.
E’ difficile da descrivere quello che si prova, ma è molto, molto vicino alla felicità per quanto mi riguarda.

Un sogno

Un giorno, su un altro pianeta o in un'altra era chissà quanto lontani, ci sarà una scuola dove potrò ascoltare finalmente come in un sogno realizzato una babele di lingue, con il loro suono e le loro voci, perché è lì che risiede il vero io di questi ragazzi

 

di Monica Febbo
 

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Monica Febbo fa parte del gruppo Riconoscimento della professionalità degli insegnanti di Italiano

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